La settimana nera delle materie prime: l’oro va picco e gli investitori scappano

Pubblicato: 27/07/2015 09:54:20

Con la settimana appena conclusa, iniziata con un rovinoso crollo dell’oro, per i mercati delle materie prime sembra essere arrivata la resa dei conti. Dopo il boom dello scorso decennio, ribattezzato forse troppo frettolosamente «superciclo», già da circa tre anni le quotazioni avevano imboccato la via dei ribassi. Adesso si è aperta una nuova fase, che Bank of America Merrill Lynch non esita a definire di «capitolazione». Non solo per il lingotto, che è andato sotto 1.100 dollari l’oncia, ai minimi dal 2010, cancellando metà dei vertiginosi rialzi che negli anni Duemila l’avevano spinto oltre 1.920 $. Oltre all’oro sono a rischio le commodities in generale, esposte a ulteriori ribassi dopo essere tornate complessivamente ai livelli di prezzo del 2002, e anche - avverte la banca - per i mercati emergenti. Tutto si tiene infatti. E il collante è un mix che include Federal Reserve, dollaro e Cina.

L’avvicinarsi di un rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, il primo dal 2006, sta esercitando già da tempo un’influenza negativa sul lingotto, che non stacca cedole. L’inversione delle politiche monetarie americane adesso appare imminente e il dollaro - valuta in cui sono denominate le materie prime, ma anche il debito degli emergenti - sta accelerando la galoppata. A tutto questo si è aggiunta la Cina: il semplice rallentamento del suo ritmo di crescita già sollevava inquietudini, che hanno ceduto il passo alla paura quando la bolla del mercato azionario ha iniziato a esplodere, con perdite virtuali che sono arrivate a sfiorare 4mila miliardi di dollari.

Per le materie prime tutto - o quasi tutto - ruota intorno alla Cina, gigante dai consumi così ingordi che per anni sono sembrati insaziabili. Il fattore Cina ha giustificato in passato quotazioni record per qualsiasi prodotto e scatenato una corsa sfrenata ad investire in nuove miniere, giacimenti, coltivazioni intensive, con l’obiettivo di espandere la produzione ad ogni costo. Anche a costo di indebitarsi troppo, come hanno fatto moltissime minerarie e compagnie petrolifere, che in alcuni casi oggi rischiano la sopravvivenza. L’enorme surplus di offerta che esse stesse hanno contribuito a creare, le si sta ritorcendo contro, amplificando ribassi di prezzo che sono ormai generalizzati.

Il terremoto che lunedì ha investito l’oro, con epicentro alle borse di New York e Shanghai - dove, guarda caso, si sospetta un attacco da parte di hedge funds cinesi - ha propagato le sue scosse. Anche l’argento e il platino sono ai minimi da oltre cinque anni, così come molti metalli industriali, tra cui il rame e l’alluminio, i più utilizzati e scambiati al mondo tra i non ferrosi.

Nemmeno i prodotti agricoli sono riusciti a sottrarsi alle vendite. Complice la presenza di ampie scorte, alcune “soft commodities” sono anzi in cima alla classifica dei ribassi nel 2015: ai primi due posti, con un calo di prezzo superiore al 20% ci sono il caffè arabica e lo zucchero grezzo, entrambi a minimi pluriennali.

Quanto al petrolio - che aveva iniziato fin dall’estate scorsa a perdere quota, dimezzando di prezzo in pochi mesi - negli ultimi giorni ha azzerato il recupero messo a segno tra marzo e aprile: il Wti è di nuovo in «bear market», ossia ha perso oltre il 20% dal picco più recente, ed è tornato a quotare meno di 50 dollari al barile.

Gli investitori stanno accelerando la fuga dalle materie prime, tanto che per la prima volta almeno dal 2006 gli hedge funds sono in prevalenza “corti” sull’oro, ossia stanno scommettendo in maggioranza su nuovi ribassi. E la situazione sta provocando ripercussioni pesanti anche sui mercati valutari, azionari e obbligazionari, che potrebbero lasciare ferite difficili da guarire (si veda l’articolo qui sotto).

«Il secondo semestre sarà probabilmente ancora più difficile del primo», ha avvertito il ceo di AngloAmerican, Mark Cutifani, un manager di lungo corso nell’industria estrattiva, che prima di approdare al vertice della quinta mineraria mondiale aveva guidato per anni la società aurifera AngloGold Ashanti. Il suo gruppo, che venerdì ha denunciato una perdita trimestrale di 3 miliardi di $ e un indebitamento di 13,5 miliardi, è crollato in borsa ai minimi da 13 anni. Ora, attraverso licenziamenti e dismissioni, punta a ridurre la forza lavoro di oltre un terzo, con l’uscita di ben 53mila dipendenti.

Le sue difficoltà non sono isolate, anzi c’è addirittura chi sta peggio. I debiti delle quindici maggiori società aurifere mondiali sono saliti da meno di 2 miliardi di dollari nel 2005 a 31,5 miliardi nel primo trimestre e per le big nordamericane, calcola Rbc Capital Markets, l’indebitamento supera ormai il 60% della capitalizzazione di borsa.

I titoli del settore minerario sono crollati all’unisono negli ultimi giorni. L’indice Ftse Mining 350, riferito alle quotazioni azionarie, venerdì è sceso ai minimi da 13 anni, e per le obbligazioni è allarme rosso. L’indice Markit High Yield Materials, che riflette l’andamento dei bond speculativi, segnala un rendimento medio del 9,5%, il più alto dal 2009 (più indietro i dati non vanno): in pratica tutto il settore è quasi a livelli “distressed”, cioè vicinissimo all’insolvenza. Anche le obbligazioni investment grade nel frattempo si sono impennate: il rendimento medio è arrivato al 5,35%, il massimo da gennaio.